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FTM - R3FL3CTION


FTM - R3FL3CTION

Script by Andrexander and Francesco Ebner

C’era una volta una ragazza che aveva un corpo femminile ed una mente maschile. Soffriva terribilmente per questa disfunzione, ma non riusciva a capirla abbastanza da darle un nome e poterla risolvere, per cui, per sopperire alle diversità interiori che si accorgeva di avere rispetto alle altre ragazze, tentava in tutti i modi di aumentare la propria femminilità esterna e comportamentale, così che nessuno si accorgesse di quanto fosse diversa, vestendosi solo di bianco e di rosa e rivestendo alla perfezione lo stereotipo di bella e brava donna che la società le aveva cucito automaticamente addosso. Un giorno scoprì che esisteva una condizione chiamata disturbo dell’identità di genere e che quello era il nome del problema che aveva, la causa della sua profonda sofferenza. Per poterla risolvere, doveva affrontare una riattribuzione di sesso, in modo da far Nascere ed esprimersi quella mente maschile che da sempre aveva avuto, ma che il suo corpo femminile di nascita non le permetteva di vivere, soffocando e stringendo in una morsa il suo vero Io.

Stamattina ho voglia di parlare di specchi. Quelle superfici riflettenti su cui chiunque almeno una volta al giorno si guarda, vuoi per lavarsi la faccia, vuoi per truccarsi, vuoi per pettinarsi, vuoi per controllare una ferita. Vuoi per vedere se ancora una volta è davvero reale, quel corpo sbagliato, o è stato soltanto un bizzarro, inquietante lungo incubo.

Qualche mattina mi sveglio dopo aver sognato di avere già in faccia una bella barba folta. Sono così felice nel sogno. Poi mi sveglio e mi rendo conto che non era reale, non ancora, e quando mi alzo e mi metto davanti allo specchio ci provo a convincermi che quella faccia mi vada bene, voglio dire non sono brutto, però non sono io. Se fossi nato donna, invece che uomo, sono sicuro che non avrei avuto problemi con il mio corpo femminile, che non mi sarei cambiato neanche un capello. Io mi piaccio esteticamente, come femmina, se non fosse per il fatto che non accetto né sento come mio quel corpo che lo specchio mi rimanda.

Per tanti anni, che diamine, ho rinnegato me stesso fisicamente, anche solo passare davanti ad un negozio mi creava un fastidioso senso di inadeguatezza, la sensazione che qualcosa fosse sbagliato. Perché quelle maledette vetrine riflettono le immagini, non so se ci avete mai fatto caso, penso di sì, anche se a noi capita di notarle in un altro modo, perché è come essere davanti all’ennesimo specchio. Le odiavo, le vetrine, mai una volta che mi ci sia fermato davanti troppo a lungo.

Un’altra improbabile superficie riflettente? La porta dell’ascensore di casa mia. Scusa, lucida, ogni volta che salgo le scale ci vedo sopra i gesti che compio. La differenza rispetto a vetrine e specchi, però, è che l’ascensore crea un’immagine sfumata, poco chiara, e questo mi ha sempre permesso, salendo quei gradini, di immaginare che la figura che ci si muoveva sopra non fosse davvero la mia, ma fosse quella di un ragazzo. Non importava che fosse bello o brutto, importava solo che fosse un lui, almeno nella mia fantasia ed immaginazione.

Quante cose possono riflettere un’immagine, provate a fermarvi a pensarci per un po’. Il fondo di una pentola, la superficie dell’acqua, un cucchiaio, un quadro protetto da cornice con vetro, lo schermo della televisione o del computer quando è a fondo scuro o è spento, i vetri di una macchina, lo schermo del cellulare, potrei andare avanti ancora. Su ognuna di queste piccole superfici per molte persone transessuali c’è un piccolo, grande incubo. C’è la l’ennesima presenza di un monito, di una tiritera che ci assilla, che ci tormenta, che ci perseguita: “il tuo corpo è sbagliato”.

È come quando, quando ero piccolo (in realtà fino a tre anni fa, quando ho cominciato ad esternare il mio vero Io, anche se comunque ancora oggi mi crea delle difficoltà), ogni volta che in vacanza, ad un compleanno, in qualunque contesto arrivava il momento di scattare delle foto io mi rifiutavo di farmi immortalare, cercavo sempre di scappare via dalla traiettoria dell’obiettivo, di nascondermi dietro a qualcun altro. E riguardandosi in quei pochi scatti strappatimi io ci vedo la mia figura, perché so che quello sono io, ma non ci vedo me stesso. Non riesco a riconoscermi per chi sono veramente. Guardo le foto e non posso fare altro che pensare “sì, va bene, sei una bella ragazzina, ma non sono io”. E in quanti scatti mi riguardo e vedo uno sguardo triste, perso, afflitto…

Anche le fotografie, in una qualche misura, sono uno specchio.

Ogni momento di ogni giornata da quando nasciamo a quando prendiamo consapevolezza di noi stessi e del nostro disturbo di identità di genere (disturbo di identità di genere = termine tecnico, indica la disforia, ossia il disturbo che identifica la persona che vive una condizione di mancata corrispondenza fra corpo e mente, ovvero una persona transessuale. NdA) siamo bombardati in ogni dove dalla nostra immagine e da tutto ciò che essa porta con sé. Il disagio, il rifiuto, la nausea, la difficoltà a guardarsi che spesso sfocia in difficoltà a toccarsi (alcuni, nel peggiore dei casi, faticano perfino a farsi la doccia, in fase di pre transizione), il malessere profondo che crea una cosa così banale come una superficie riflettente. Banale perché per chiunque è vita quotidiana e normale amministrazione. Per noi, però, è tutto tranne che una banalità.

Oggi mi guardo allo specchio e vedo Andrexander. Anche se il mio corpo è ancora femminile, anche se per alcuni sembro una ragazzina strana e per altri un ragazzino di tredici, quindici anni, io oggi allo specchio riesco a vedere Me. Forse semplicemente perché ho imparato prima di tutto ad accettare il fatto di essere nato transessuale, probabilmente uno dei passaggi più difficili del nostro percorso di vita. O almeno, per me così è stato.

Qualche volta provo ad immaginarmi come maschio, con i lineamenti già induriti dal testosterone, la barba, i muscoli accentuati. Non so come sarò quando comincerò a prendere il testosterone. Però una cosa la so per certo: ho imparato che non mi importa quale sarà il risultato finale, quanto sarò imperfetto, sarò comunque molto più io di quanto il mio fisico femminile di nascita lo sia mai stato.

Ricordo, quando camminavo in mezzo alla gente e mi sentivo bloccato da invisibili barriere. Mi ritrovavo solo in mezzo agli altri. Non potevo raggiungrli, continuavo a schiantarmi contro un'invisibile parete gelida. Mi sentivo di soffocare ogni giorno di più, odiandomi follemente nella mia solitudine, non volevo farmi del male, ma continuavo a precipitare come in un pozzo, cercando invano di aggrapparmi alle sue lisce pareti. Semplicemente non avevo scampo, non tolleravo guardami allo specchio, non potevo dormire, la pressione esterna era insostenibile, gli altri avevano eretto un muro intorno a me.

Ricordo che fuggivo, nascondendomi nei libri, cercando di non pensare a Me, ricordo che non andava nulla come avrei voluto. Passavo ore guardando una ragazza, desiderando abbracciarla, senza avere il diritto di sfiorarla.

Non vivevo, mi limitavo a sopravvivere in quel freddo desolato, perchè se provavo ad avvicinarmi c'era sempre qualcosa in mezzo, ma lo vedevo solo io.

Non era giusto. Infinite volte mi chiesi perchè, ma non c'era una risposta, e i pensieri affondavano i loro artigli dentro di me, perchè tutto diceva che io ero sbagliato, perchè non sapevo dove andare o cosa fare per cambiare le cose. Perchè ero un animale ferito in gabbia. Volevo uscire, volevo liberarmi ma al tempo stesso non avrei mai permesso a qualcuno di avvicinarsi. Avevo paura di uscire, non volevo restare lì.

Le contraddizioni mi fanno incazzare, e la rabbia mi diede la carica per tornar fuori dal limbo dove mi ero gettato.

Ricordo, che mia madre non capiva, non aveva idea di come stessi, non ero in grado di farglielo capire. Ricordo che mi regalò i trucchi, che mi trascinava nei negozi chiedendo qualcosa per LEI, e i commessi si sbizzarivano con cose aderenti, bianche e rosa e piene di pailette. Rifiuto. non se ne parla. Cedeva e chiedeva di vedere qualcosa dal reparto maschile, occhiate stranite ogni volta. Ricordo la gente, con i suoi sguardi dubbiosi, i loro occhi esploravano in vano la mia figura cercando di capire chi fossi. Nacque Shade. Perchè l'ombra non puoi caprila se non ci sei dentro, perchè loro avevano paura delle ombre che alterano le loro percezioni, perchè si ostinano a guardare tutto con la luce. Ricordo la curiosità e lo sdegno dipinte sui loro volti. Purtroppo, pochi tenevano per se quella domanda. Morse di ghiaccio mi soffocavano ogni volta che qualcuno mi fermava, per loro era un diritto sapere chi fossi. Non capivano cosa vedevano, si sentivano turbati al punto di pretenderlo sapere, ad ogni costo. Allungavano le loro mani nella gabbia, armati di lame affilate, e senza rimorso colpivano il dolore restava lì bruciandomi nella schiena per giorni. Nessuno vedeva quegli squarci, nessuno poteva sentire le urla nella mia testa.

Diverse volte desiderai che finisse tutto, a volte pensavo ci fosse una sola soluzione, ma me ne allontanavo perchè per me c'era una cosa fondamentale ad avermi sempre trattenuto, e quella era Madre Terra. Perchè mi sentivo l'unico a capirla, perchè loro erano lì, ma non la sentivano. Io invece potevo sentire il vento fra i miei capelli, il calore del sole sulla mia pelle, i proiettili freschi della pioggia. Potevo vedere l'erba crescere e le foglie ingiallire, e loro erano lì impassibili. Perchè avevo fatto un patto con me stesso, di volerla salvare a tutti i costi, perchè non aevo la forza di andarmene e lasciar perdere tutto.

Non avevo voglia di finire in una scatola di legno dentro una stanza di pietra. Però loro non capivano nemmeno questo. Fa male sapere che veniva sempre qualcuno, solo quando aveva bisogno di Me, di quello che sapevo o che potevo dirgli. loro non meritavano le mie parole, la mia attenzione. Camminavo in cerchio di notte, perchè non volevo sognare, perchè nei sogni iniziava il vero incubo. Così finii per disegnare il mio disagio, per scaravaventare tutto su un foglio, perchè odiavo quel bianco così vuoto e accecante, così freddo e distante. Riempii la mia vita di nero, per allontanare la luce che generava ombre fuori posto, che diceva quello che volevano loro e non chi ero davvero.

Talvolta stavo meglio, lontano da chi poteva farmi male, al caldo nell'ombra, durava finchè la solitudine non veniva a sfiorarmi le spalle, ricordandomi che nessuno mi abbracciava, accarezzandomi gelida il collo provando a strangolarmi. Ricordo che non sopportavo la gente, tutte quelle dannate coppiette, quei baci e quelle effusioni esplicite in pubblico.

Ricordo che preferivo sprangarmi in casa piuttosto che dover stare a guardare.

Credevo che i ricordi non se ne sarebbero mai andati, continuando a perseguitarmi di notte, invece, lentamente sono sbiaditi, le ferite più superficiali hanno iniziato a rimarginarsi, ma io non voglio perdere nulla di Me stesso, perchè in fondo, la gabbia è parte di me.

L'altro giorno, mi sono veramente reso conto di quanto sia cambiato tutto, di quanti passi io abbia fatto, come se mi fossi girato a guardare la strada percorsa, e non potessi più scorgerne per bene l'inizio.. Auguro a tutti di trovare i segnali su quel percorso, che ho lasciato, perchè nessuno di perda per strada, perchè mi rendo conto che non è semplice andare fino in fondo, adesso però io cammino più tranquillo, perchè la pressione si è notevolmente alleggerita e sto imparando ad amarmi.


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